Blog del regista

Domanda legittima:

A che serve il teatro?

Si può porre anche per tutte le arti varie e presunte tali, e così propalate.

A niente.

Non serve assolutamente a niente, se non a far passare una, due, tre e più ore (Grazie Hans-Jürgen Syberberg!).

Assolutamente a niente in un mondo (occidentale, sia chiaro) dominato dal successo personale, individuale, egoistico, dalla carriera, dal merito come arma, dagli status symbol, dal “tutto è merce!”.

Nulla, zero (grazie matematici indiani, e arabi per tramite).

Dicevamo anzi, meglio non dire visto che parliamo del Nulla, e che senso ha usare parole per un qualcosa che non esiste in quanto non ha valore, non è misurabile, non pesa, dura un attimo ma, per misteriose vie, muove milioni di persone, sparse nei vari fusi orari?

Come il “fenomeno” Taylor Swift registra.

Quindi, esiste un valore di un Nulla, se milioni ne restano affascinati, pervasi, blandi ossessi in estasi esclusiva.
Così come è stato per noi tutti, venti, trentenni e giù di lì, con idoli ormai visti come realmente essi erano ed altri rimasti intatti ed ora tocca alla progenie viverle, ed insegnarci a vederle coi loro occhi splendenti.

E all’improvviso, nello stesso contenitore sociale (L’Occidente), quel Nulla ha un peso, un valore, lo paghi, costa, sfama persone, magari pure troppo, (grazie cure dimagranti!), sposta denaro in tasche sempre diverse, sempre più capienti e in ricaduta disponibili al rischio, per il miraggio di guadagni sempre maggiori.

Ma qui stiamo parlando di un fenomeno popolare, come i tanti e tossici o meno degli anni 80 e precedenti, e successivi.

Il teatro no.

Il teatro nel suo nulla (volutamente minuscolo), non ha quei numeri, non ha quella pletora di sodali affascinati dalla combinazione timbrica o musicale (essa magari, rapinata a destra e a manca, come prassi invalsa da secoli, (Grazie A.L. de Lavoisier e precedenti) e non avrà mai quelle dimensioni né l’unicità dello spettacolo prodotto industriale, chiuso e confezionato in una sera di perfette, irraggiungibili, sequenze di effetti e talvolta, dubbia eufonia.

No. Il teatro non usa questi metodi e pare allontanarsi dal palcoscenico del presente e del futuro, pare…

Invece, nonostante tutto il bagaglio di polvere, sudore, fallimenti e momentanei successi, valsi forse l’encomio di un pubblico presto rivolto al prossimo ancor più degno di tale omaggio, quell’inutile perdere tempo tra le due posizioni della clessidra di ognuno ha un significato, esso perso nei continui rivolgimenti di società molto più dinamiche di un tempo ma non dissimili nelle domande poste.

Ma devono proprio essere così… dinamiche?
O il Tempo come mannaia pesa nei mille strazi a cui ci si risolve scorrere, nei mille meandri di incombenze esse si moderne ma identiche dalla notte dei tempi, di noi primati bipedi?

Ecco che il teatro, pur senza il confortante ombrellino nel bicchiere, separa, come le ferie fanno.

Separa il Tempo come un silenzio di J. Cage, lo blocca.

Ecco, il teatro ha questo potere, di fermare quel Tempo e condurci in un altro, esso dilatato. Poi, sta a noi come viverlo, se male, bene , sbuffando, con lacrime (si, il teatro deve emozionare ma senza strappamenti di tendaggi o lacrimose storie ma per adesione al racconto, sì), deve rapire la mente oppressa dai mille dettami di un’esistenza interconnessa, deve riportare il proprio personale Tempo verso il piacere di…

Fermarsi.

Di non gioire in una piatta riproduzione del giorno prima, in una replica che, prima o poi imploderà, per pressione interna non rilasciata in tempo.

Certo, non salva, il Teatro.
Neanche cura.

Non è quello il suo scopo.

Ma allora, qual é?

Si va bene, abbiamo fermato il Tempo ed ora (tanto invecchio comunque, la Biologia comanda) che ci facciamo se, il tempo è denaro?

Quanto è vero! Anche il nostro tempo di teatranti che lo facciamo in barba alle leggi della razionalità economica ha quindi, un valore…

Ma ecco che, acquisito un valore apparente, resta per entrambi la stessa domanda…

A che serve, il teatro?

A chi serve, se non a darci un po’ di fresco, nelle arene (le sopravvissute), nei teatri di verzura disseminati nel nostro Mediterraneo, negli spazi invisibili ai più, esse genti attratte dallo sfavillio del Turismo Culturale di una società di massa… e di certo, poco interessati a poggiar le terga su una scomoda sedia, uno scalino, una squittente tavola di legno…

Nella penuria di comodità offerte dal Teatro (escludendo quelle comode avvolgenti dei sacrari del Teatro, rossi festosi e così bravi-quegli-attori), di ripetute repliche di battute stantie, che manco lo zio allegro ubriaco a Natale (di sé un Grock mancato), cosa ci facciamo coi doloretti che insorgono dalle scomodità della povertà del teatro?

Rapiti.

Ci facciamo sequestrare dalle parole, dai suoni strutturati come partiture, dai testi di quella letteratura così esposta e tanto poco letta (e le ragioni sono legittime, comunque), di quelle azioni sì lontane ma di costante presenza, siano esse morte, distruzione, amore nel senso più turpe possibile, o grandi domande.
Le domande che l’esistenza, nella sua costante mancanza di ossigeno mentale altrove impegnato, di tempo lento, pone ad esse, ormai relegate ai momenti dell’angoscia, del sonno interrotto, viste come incubi notturni e non come un naturale, istintivo, anelito a pensare altro, non ordinario.

Ed ecco i sogni.

Ed il Teatro è capace di far sognare, di far credere legittimo un amore fra due adolescenti (The Most Excellent and Lamentable Tragedy of Romeo and Juliet – 16 anni lui, 13 lei!), di rendere sopportabile parlare di un turpe stupro senza essere in un tribunale (Tragedie greche a scelta) (Grazie sempre a Tina Lagostena Bassi), di rendere visibile un potere altrimenti occulto (Der Prozess- Grazie F. Kafka), di intrighi bonari (La mandragola- Grazie N. Machiavelli), di bassezze per vanità, per invidia (grazie Micheál MacLiammóir), di allegorie sociali (grazie H. Ibsen), di convenzioni aride (A. Schnitzler), di noia tutto pervadente (A. Pincherle), mischiando nella gaiezza di un apparente semplice intreccio (L. Pirandello), nella sua pericolosa trama (La resistibile ascesa di Arturo Ui – B. Brecht), anche il sentire dei partecipanti, anch’essi chiusi per volontà nella stessa macchina del tempo (Grazie J. Verne).

Un elenco.

Che tanto piacciono agli uomini e da millenni, basti pensare alle intricate concatenazioni di divinità antiche, quelle cosiddette: pagane.

Ma col teatro moderno, dei giorni nostri, del secondo dopoguerra, del nuovo Millennio, la lista si è sparsa in mille direzioni, in mille rivoli di sensi, tecniche, significati, ricerche ed anche scoperte, tutte con, nel fondo, la questione che tutti abbiamo dentro, attori e spettatori…

Si ricorderanno di me? Cosa resterà di noi tutti?

La risposta è lì. Dopo centinaia di anni ancora onoriamo autori, ormai polvere, mettendone in scena i testi in ogni angolo del mondo.

Tutti insieme, su questa artistica sfera di aristotelica perfezione, che in realtà è più una patata spiaccicata su un nero fondale (Grazie Metodo scientifico), tenuta in vita e in posizione da un sole, da cui probabilmente tutto nacque.